Capitolo 1 - Prologo
Sono le 10.00 del 7 aprile 2016, è una giornata primaverile calda e confortante dopo un lungo inverno. Il cielo è limpido ma il Sole ha un po’ di alone. Aleggiano in aria, trasportati da una fresca brezza, i profumi di mille fiori, gli insetti impollinatori stanno facendo il loro lavoro tutt’intorno e a tracolla ho la mia fida chitarra.
Sono qui, davanti all’entrata del carcere anzi, della Casa Circondariale di Pesaro, che sto aspettando Susanna da una decina minuti, ma ancora lei non si vede.
Come al solito un po’ di ritardo ce l’ha, è fisiologico, però questa è la prima volta di una nuova avventura e si era detto di essere puntuali. Naturalmente Susanna era la prima ad essere d’accordo su questo punto e poi invece no, eccola fedele alla linea di irriducibile ritardataria, normalmente affannata e correndo di default. Come minimo avrà milleduecentoventisette cose da fare, per parlare solamente di stamattina.
Ma ecco! La vedo percorrere il tratto tra il parcheggio e l’entrata del carcere. Caracollando arriva con tanto di borsone al seguito.
“Scusa Riki, ma c’era un traffico bestiale…”
Conosco questa frase, quante volte l’ho sentita… Ok sì, c’è sempre traffico, ma tanto lo so, conosco Susanna e poi, non me ne frega neanche niente, ma prima che inizi con il diluvio di parole, vado rapidamente a bomba:
“Dai su entriamo che ci stanno aspettando!”
Eh già, nessuno di noi due è mai entrato lì dentro. In carcere intendo, dove per noi che stiamo “fuori” quelli che sono li … “dentro”.
Ma ce n’è voluto davvero, di tempo ed impegno.
Abbiamo dovuto seguire l’iter burocratico della presentazione di certificati, ottenere autorizzazioni e permessi, sottoporre progetti ed idee e tutto quello che serviva.
Insomma eccoci qui a fare musica con i detenuti, siamo leggermente in ritardo e molto emozionati per questa nuova esperienza professionale e di vita, insomma non vediamo l’ora di cominciare.
“Dai Susy muoviamoci!”
Ci troviamo all’ingresso anzi, al Blocco come poi abbiamo saputo si chiamasse, la porta aperta dà su una sala di aspetto, e noi tranquillamente entriamo.
(nota: ultimamente il Blocco è diventato Block House, ulteriore debordante inutile inglesismo).
Il Blocco è diviso in due sezioni, una aperta verso l’esterno e un’altra che dà verso l’interno, e appare insuperabile: vetri antiproiettile, porte metalliche corazzate, interfono per comunicare.
Lo so, è logico così.
Dentro siamo circondati da suoni di lingue incomprensibili e da una umanità variegata, in maggior parte seduta, oppressa da una aleggiante atmosfera di tristezza. Appoggiate ad una parete la macchinetta per il caffè e il distributore automatico di merendine e bibite sul quale c’è attaccato con lo scotch un foglio con scritto a penna: NON FUNZIONA.
Sì lo sappiamo, siamo in Italia.
Al di là dei vetri antiproiettile il personale carcerario è indaffarato in oscuri compiti, senza nessuna fretta apparente.
Ci appostiamo lì davanti, facciamo ciao ciao con la manina, ma prima di ottenere l’attenzione di qualcuno passa una decina di minuti. Poi finalmente un agente distoglie gli occhi da un librone, ci guarda e poi dall’interfono ci chiede:
“Cosa volete?”
Che forse non ha detto così, che magari era più un… Cosa desiderate, ma Cosa volete rende di più l’idea dell’atmosfera aleggiante. Sicuramente avranno a che fare tutti i giorni con una umanità questuante, petulante e disorganizzata, per non dire talvolta rompiscatole, oltre a beghe varie ed eventuali.
Capiamo tutto.
“Siamo qui per i corsi di musica.”
“I corsi di che?”
“Per i corsi di musica, può chiedere chiarimenti alla dott.ssa E.V.”.
Telefonata uno, faccia di chi non ha capito bene, poi telefonata due con dialogo febbrile a seguire, infine si rivolge a noi per richiesta documenti, che passiamo infilandoli attraverso la fessura apposita. Rapido controllo sul computer e su un librone, e poi finalmente CLAC! Scatta la serratura di una porta, e siamo invitati a passare.
Ok, è fatta!
Riccardo Marongiu©
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